Ave villici!
Tanto per cominciare un piccolo mea culpa per questo mese di assenza, ma tra idee strane da sviluppare e veder naufragare nel giro di poche ore, lo schifo che imperversa ovunque e che abbatte ogni spinta al giusto e al bello, alcuni impegni personali inderogabili (portare la Pro Vercelli sul tetto del mondo a Fifa ha preso più tempo del previsto) e una balla di cazzi miei posso scrivere nuovamente solo adesso. E mi dispiace molto, perché di roba di cui parlare ce ne sarebbe stata a strafottere, ma tant’è. Chiedo venia.
Vorrei parlare di tante cose, non ultime le polemiche sulla statua di Montanelli e tutto quello che è girato intorno a questa nuova paturnia del dibattito culturale nazionale, ma preferisco stare più sul generico e parlare di una strana perversione che noto con sempre maggiore intensità nelle chiacchierate che faccio con gli amici e che striscia -sempre meno furtivamente- nel paludoso humus culturale italiano. Sto parlando, ovviamente, della nostalgia per i magici anni ’80. Gli anni della Milano da bere, la presunta epoca d’oro della nostra cara amata Italia e che tutti, più o meno intensamente, sembrano rimpiangere, non ultimo il buon Matteino Tuttominchia qualche giorno fa da Floris in TV.
Scherzando potrei dire che io gli anni ’80 li ho vissuti a metà, essendo nato i primi di Febbraio del 1985 posso dire con baldanzoso cipiglio “io c’ero”, anche se ovviamente non capivo un cazzo del mondo che mi circondava. Quindi mi è parsa cosa buona e giusta, prima di scrivere questo pezzo patetico, di documentarmi su cosa fossero davvero gli anni ‘80. Sono passati 30-40 anni da allora e quindi presumo si possa parlare di quel periodo con un certo distacco e con la necessaria cautela. Cosa erano, alla fin fine gli anni ’80? Anni strani, giunti dopo decenni segnati dalla crescita del Paese, ma anche dalla violenza e dal delirio del terrorismo rosso e nero, dalla contestazione studentesca e operaia, dalla crisi petrolifera etc etc. Un periodo quindi, per chi non lo ha vissuto, non propriamente facile da inquadrare. Proviamo a capirci qualcosa di più, perché questa nostalgia degli anni ’80 io inizio a non sopportarla più, anche perché a vederla con gli occhi di oggi quel periodo sembra un periodo popolato da gente pronta per l’epica ma totalmente ignara della quotidianità o, come dice qualcuno, “petto in fuori e pezze al culo”.
Un discorso più generale, prima di addentrarci più a fondo nel problema: ma non vi pare patetico rimpiangere, nel 2020, gli anni ’80? Non vi pare, già questo, il sintomo più grave dello sfascio che stiamo vivendo? Perché non siamo in grado di immaginarci un futuro migliore di quanto abbiamo già vissuto e siamo capaci soltanto di guardarci indietro con la lacrimuccia agli occhi per i bei tempi andati? Per smontare questo discorso basterebbe osservare che chi consideravamo alla stregua di pezzenti (Spagna, Portogallo, ma anche Corea del Sud, Cina, Brasile etc etc) in questi 40 anni si è portato al nostro livello e, spesso, ha messo la freccia per il sorpasso rispetto alla nostra misera Italia, sempre più ferma al palo. La Spagna in 40 anni ha fatto passi avanti importanti, per non parlare della Corea del Sud che da fabbrica delle bamboline coreane è diventata una potenza mondiale ed è probabilmente la nazione leader nella nuova rivoluzione industriale, mentre Brasile e Cina beh, nemmeno ci perdo tempo a trovare le parole.
Quindi cosa si rimpiange degli anni ’80? Stento a capirlo, da osservatore distaccato noto soltanto che è il periodo che ha affossato l’Italia, depauperando quanto messo in cascina col miracolo economico del dopoguerra e, cosa ancora più grave, perdendo il treno della rivoluzione informatica iniziata proprio nei grandiosi anni‘80. Nella narrativa nazionalpopolare gli anni ’80 erano anni segnati da lavoro per tutti, ricchezza a pacchi, le mamme potevano stare a casa a crescere i bambini, avevamo il campionato di calcio più bello del Mondo, eravamo la quinta potenza mondiale (su 5, si dimenticano sempre di aggiungere) e tutte ste robette. Discorsi utili più a farci sembrare il cazzo grosso che a rendere giustizia alla verità, che era ben diversa: la politica fu incapace (o non desiderosa) di capire che il mondo stava cambiando e che nel futuro la ricchezza delle Nazioni non sarebbe più stata dettata esclusivamente dal numero di fabbriche e di acciaierie, ma dal saper cavalcare la rivoluzione guidata dall’ascesa del computer e dell’informatica.
Persi dietro a discorsi fuori dal mondo (un parallelo attualissimo con le polemiche sulla statua di Montanelli, mentre intanto il mondo intorno crolla) e senza nemmeno capire che il mondo diviso in blocchi stava per finire, l’Italia decise di negare la realtà e chiudersi a riccio su se stessa. L’esplosione del debito pubblico firmata CAF (Craxi, Andreotti e Forlani) bruciò in un decennio quanto accumulato con fatica dal 1945, unita all’utilizzo del sistema pensionistico come ammortizzatore sociale per non accettare la realtà del mondo in rapida mutazione. Un’altra grande macchia su questo decennio magico è senza dubbio quella inerente al mancato intervento per sanare un ritardo infrastrutturale che ancora ci portiamo dietro, ma come non parlare degli anni ’80 senza nominare le tangenti e le ruberie di quegli anni? I furti di quegli anni sono nei libri dei record mondiali di corruzione, basti pensare a quanto successe per i Mondiali di Italia ’90, quello delle Notti Magiche. Ed è interessante parlare di Italia ’90 come simbolo degli anni’80 perché è il giusto anello di congiunzione semplice, transnazionale e capibile da tutti, anche da voi, miei cari lettori.
Nel 1984 la FIFA decise di assegnare l’organizzazione dei Mondiali di Calcio del 1990 all’Italia. Partì subito l’abbuffata: con la legge 65 del 1987 vennero stanziati 48 miliardi di lire per ammodernare le strutture di Bari, Torino, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Udine e Roma. Ma non bastarono 6 anni di preavviso per organizzare efficientemente gare ed appalti: l’86% dei lavori fu affidato tramite trattativa privata e misteriosamente le spese crebbero, mediamente, del 90% con l’Olimpico di Roma che vide lievitare i costi stimati del 180%. Stadi che, in molti casi, furono anche un fiasco architettonico (Delle Alpi di Torino su tutti, ma anche San Nicola di Bari a firma Renzo Piano o il terzo anello del San Paolo di Napoli, mai inaugurato per onde sismiche causate dalla sua stessa struttura in ferro), ma l’abbuffata non si fermò agli stadi, riguardò anche altre tipologie di infrastrutture. Come dimenticare ad esempio la stazione di Roma Farneto (o Roma Olimpico-Farnesina)? Costò 15 miliardi, funzionò solamente in occasione delle sei gare svolte all’Olimpico nel corso dei Mondiali, per 12 convogli giornalieri. Degna di nota anche Roma Ostiense, stazione che fu oggetto di un’ingente opera di restauro e che solo adesso, dopo 30 anni, inizia ad avere una sua anima, dopo essere stata per anni poco più che un rifugio di lusso per tossici e barboni. Alla fine della fiera, nonostante i 7200 miliardi di lire spesi, solo 95 dei 233 progetti videro la luce.
Credo che sia bello legare la sorte sportiva di quei Mondiali (nei quali la Nazionale Azzurra partiva nettamente favorita) alla fine del sogno. Infatti quel decennio da cicale, dopo 25 anni da formiche, si sarebbe dovuto concludere con il trionfo calcistico in casa come conclusione idilliaca. Purtroppo andò diversamente, l’Italia dovette cambiare la medaglia d’oro con la più amara delle medaglie, quella di bronzo. A me piace pensare che quel maledetto gol di Caniggia (e successivamente le parate ai rigori di Sergio Goycochea ) sia da intendersi come il primo squillo di una tragica sveglia su un Paese che si era addormentato sognando di essere grande. E’ il 3 Luglio del 1990 e gli anni ’80 sono ufficialmente finiti, esattamente nell’attimo in cui si registra la parata di Goycochea sul rigore di Serena.
Alla fine del suono della sveglia ci attendevano prima la crisi del 1992, poi Tangentopoli e infine le bombe della mafia: la vera eredità di quel “decennio d’oro”.