Recensione "Il mio nome è Jackie Robinson"

Enrico Luschi • 5 aprile 2019

Un libro salutare da leggere nell'Italia Carioca

Come sapete sono un fanatico di baseball, uno sport che ha una componente mistica (e al tempo stesso romantica) fusa con tecnica e strategia che, francamente, è impossibile trovare in altri sport.

Se avete visto anche solo per sbaglio "Bull Durham" (con Kevin Costner e Susan Sarandon) o "Moneyball" (con Brad Pitt) sapete di cosa parlo. Se di baseball non ne sapete nulla leggete ugualmente questo libro, perchè forse è il miglior libro scritto sul baseball, con il sommo pregio di non entrare troppo nello specifico tecnico o strategico, cosa impervia per i profani del Grande Gioco. Inoltre, una volta tanto, può anche far comodo disintossicarsi dalla continua informazione calcistica, ormai arrivata al punto da rendicontarci anche su quante volte ha cacato Cristiano Ronaldo nell'arco della giornata. Quindi leggetevi " Il mio nome è Jackie Robinson ", la storia di un'icona (non solo sportiva) americana.
Lo ha pubblicato quel mezzo miracolo editoriale della 66thand2nd, sono appena 144 paginette.

E' un libro che si divora, uno di quei classici libri che una volta iniziato non riesci a smettere di leggere e ti ritrovi a dire "Ok, un'altra pagina e chiudo, poi riprendo con calma". Ed invece ci si ritrova immersi sin da subito in questa breve biografia scritta magistralmente da Scott Simon, giornalista di spicco del panorama americano, avendo alle spalle le prestigiose collaborazioni con New York Times, Wall Street Journal e The Guardian.

Il libro ha il pregio non comune di essere tradotto in un correttissimo gergo tecnico (le hit diventano "valide" ed i ball tali rimangono, non diventano "palle"). Bello poter finalmente leggere qualcosa di interessante sul baseball (e non solo!) in lingua Italiana.

L'autore oltre che narrare la vita e la carriera di Jackie Robinson (Rookie of the Year ossia miglior esordiente nel 1947, MVP ovvero miglior giocatore nel 1949, 6 volte selezionato come titolare nella partita delle stelle, happening annuale chiamato All-Star Game, vincitore delle World Series del 1955 ed introdotto nell'Hall Of Fame), descrive magistralmente anche l'atmosfera del brulicante quartiere (o città nella città?) di Brooklyn.

E sembra davvero di risentire quei suoni, quei sapori e quei profumi, di Brooklyn e dell'America tutta dell'immediato primo dopoguerra. Quella Brooklyn così orgogliosa dei suoi Dodgers prima ancora dell'unica vittoria nelle World Series (1955). Dodgers o se preferite Dem Bums (slang traducibile con "Quei buoni a nulla") o The Daffness Boys ("Gli Strampalati", definizione coniata dall'allora più eminente giornalista sportivo), istituzione culturale prima ancora che squadra agonistica. Unica frase che mi permetto di citare da Simon " Quella squadra, in quel quartiere era l'immagine esatta di quello che un passatempo nazionale dovrebbe essere ".

Tutto da gustare questo scorribilissimo racconto della vita di un eroe moderno, dalla turbolenta gavetta militare alle imprese sportive giovanili (ed il baseball non era nemmeno lo sport in cui Jackie Robinson ottenne i risultati più brillanti), passando per un'accesa passione civile, coltivata anche dopo la fine della carriera agonistica. Quasi toccante leggere, pagina dopo pagina, il nascere di amicizie partite non proprio nel migliore dei modi, a causa del feroce razzismo della civilissima America fin dopo il secondo conflitto bellico.

Molto intrigante la parte del libro nella quale l'autore spiega il concatenarsi di una straordinaria serie di coincidenze che portarono il General Manager dei Brooklyn Dodgers, il leggendario Branch Rickey, a scegliere Jackie Robinson quale primo (ma siamo poi così sicuri?) atleta afro-americano della storia del baseball di Major League. Chissà, ad esempio, cosa vide in più in Robinson piuttosto che nelle altre stelle delle Negro Leagues.

Cosa poteva avere in più Robinson di Dihigo (nell Hall of Fame di America, Cuba e Messico!!!), o di Josh Gibson (uno che oscillava dai 50 ai 75 homerun a stagione, numeri pazzeschi), di Paige o di altri incredibili talenti, tenuti lontano dalla Major solo per assurde leggi razziali? Non ho la minima intenzione di svelarvelo, comprate il libro ed eruditevi. Avrete modo di apprendere, se già non lo sapete, che Robinson fu "vicino" alla firma con i Red Sox, ma "il difetto di essere negro" non voleva proprio perderlo.

Insomma, consiglio vivamente l'acquisto e la lettura di questo libro dalle mille sfaccettature, ricchissimo anche di aneddoti tecnici. Leggere delle provocazioni di pubblico e avversari (che a Philadelphia, la città dell'amore fraterno, arrivarono anche a fingersi cecchini usando la mazza a mo' di fucile), di irruzioni in panchina di funzionari di Polizia minaccianti l'arresto di Manager e giocatore se Robinson non fosse stato immediatamente sostituito, del diniego persino del ristoro e dell'Hotel dopo estenuanti viaggi, non potrà che essere lettura salutare anche in questa Italia sempre più razzista.

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